Il Museo diocesano di Benevento, ancora in fase di completamento, consta attualmente di due sezioni: il percorso archeologico ipogèo e l’area propriamente espositiva comprensiva anche della pseudocripta: esso testimonia la lunga vicenda dell’insediamento urbano nel percorso archeologico che propone e racconta la vita della comunità cristiana attraverso il patrimonio culturale esposto.
Proprio lo studio e l’analisi dei manufatti destinati all’allestimento della sala della vita religiosa hanno condotto a due importanti scoperte. Poiché nella narrazione della vita religiosa un posto significativo è dato al santorale e al culto dei santi, tra le testimonianze da esporre sono stati selezionati due ovali di piccole dimensioni (h 21 cm x l 17,5 cm) entrambi olio su lastra di rame, che gli inventari esistenti attribuiscono (anche se in forma dubitativa) a Francesco Solimena e assegnano al secolo XVIII. Per procedere alla loro pulizia i due manufatti sono stati smontati, sicché è stato possibile leggere sul verso della lastra l’incisione del nome del pittore “Francesco di Mura” e dell’anno “1749”.
Trattasi quindi senza ombra di dubbio di due inedite opere di Francesco De Mura, che nacque a Napoli nel 1696, frequentò per un anno la bottega di Domenico Viola e si formò alla scuola di Francesco Solimena nel cui atelier rimase per circa 20 anni. Dal 1741 al 1743 soggiornò a Torino dove conobbe il pittore Corrado Giaquinto e l’architetto Benedetto Alfieri. Sulla scorta anche degli insegnamenti di Mattia Preti, di Luca Giordano, di Paolo De Matteis, e di Giacomo Del Po egli maturò un percorso artistico personale, sicché alla morte del maestro Francesco Solimena (anno 1747) puó essere considerato il pittore più dotato e più importante del Regno di Napoli. In una lettera del 3 settembre 1773 Luigi Vanvitelli scrive che «il migliore di tutti li dipintori, che presentemente sono in Napoli, nel quale concorrono le parti che deve avere un valent’ uomo, per distinguersi sopra gli altri, egli è Don Francesco de Muro…». A Napoli il De Mura morì il 19 agosto 1782.
Dei due ovali il primo rappresenta San Vincenzo Ferreri (in valenciano Vincent Ferrer, nato a Valencia il 23 gennaio 1350 e morto a Vannes il 5 aprile 1419), celebre teologo e predicatore appartenente all’Ordine dei Domenicani, lo stesso dell’arcivescovo Vincenzo Maria Orsini. Tale identificazione è confermata dalle lettere incise in alto sul lato sinistro del verso della lastra (S. V. F.), mentre per la seconda rappresentazione gli inventari riportano la dicitura di “Santo non identificato”. E però anche in questo caso le lettere incise sul verso del manufatto (S. G. N.) hanno fornito la traccia per l’individuazione del raffigurato: San Giovanni Nepomuceno (in ceco Jan Nepomucký). Questi nacque a Pomuk (antico nome dell’odierna città di Nepomuk, onde Nepomuceno) nella Boemia occidentale verso il 1340-1350, figlio di un certo Valfino, probabilmente sindaco locale. Avviato alla vita ecclesiastica, studiò teologia e diritto all’Università di Praga, appofondì gli studi giuridici presso la prestigiosa Università di Padova con il conseguimento del dottorato. Incardinato nell’arcidiocesi di Praga, venne ordinato sacerdote nel 1380, fu nominato parroco, poi canonico e infine vicario generale dell’arcivescovo Giovanni di Jenštejn in un difficile momento di contrasto con il re Venceslao IV, che mirava ad acquisire il controllo della Chiesa di Boemia. Giovanni fu imprigionato dal dispotico sovrano, torturato e fatto gettare nottetempo nel fiume Moldava dal ponte Carlo IV nel 1393. Non manca un’altra versione dei fatti che attribuisce l’annegamento da parte di Venceslao al fatto che Giovanni, confessore della regina, non volle rivelare al sovrano il segreto della confessione. Comunque sia, egli è qualificato dalle fonti storiche quale martyr sanctus e come tale fu solennemente canonizzato a Roma nella basilica di San Giovanni in Laterano il 19 marzo 1729 da Benedetto XIII (Vincenzo Maria Orsini), che anche da papa aveva conservato la titolarità della sede arcivescovile di Benevento.
In questi due pregevoli piccoli dipinti il De Mura, accogliendo le suggestioni di Luca Giordano e di Paolo De Matteis, rivela di aver superato il complesso decorativismo di Francesco Solimena e le figure tipizzate inserite come personaggi teatrali nelle scenografie delle architetture, per attingere soluzioni sapienti e raffinate in virtù anche dell’uso di materie cromatiche più rischiarate e brillanti.
La grazia e la raffinatezza di questa produzione, lontana dal mondo eroico e aulico del Barocco, privilegia la disposizione delle immagini meno rigorosamente studiate e una resa degli atteggiamenti espressivi meno controllata e severa. Così l’iconografia classica di San Vincenzo Ferreri viene riletta in una dimensione di più calda e immediata resa formale: il domenicano, non rapito nel fulgore angelicato del predicatore ispirato, è espressivamente rivolto al fedele mostrando il libro dell’Apocalisse aperto al versetto 14, 7: «Timete Deum et date illi honorem, quia venit hora iudicii eius». La formula compositiva è di grande naturalezza: la figura curvata asseconda l’ovale, la mano sinistra ristabilisce l’equilibrio della destra che indica il libro aperto, il volto roseo appare emanazione cromatica e sacrale degli angeli sullo sfondo, mentre la morbida luminescenza del cappuccio tempera l’austerità del mantello.
La pulitura del secondo dipinto ha restituito anche al “Santo non identificato” la vera identità: San Giovanni Nepomuceno, ritratto nell’estasi della contemplazione del Crocifisso, con le braccia conserte nella meditazione dell’Uomo dei dolori. La trama pittorica della veste e della cappa canonicale, basata su rapporti cromatici calcolati con finezza, rende anche questa opera scevra dal decorativismo trionfalistico della santità, umanissima e vicina alla quotidiana devozione di anime sensibili e di menti pensose.
Queste due testimonianze settecentesche, che arricchiscono ulteriormente il patrimonio espositivo del Museo diocesano di Benevento, sono quindi da assegnare definitivamente a Francesco De Mura, il pittore napoletano che ha dissolto le tensioni ideali e i conflitti profondi dell’epopea del Solimena nei toni lievi e delicati del raffinato “contrappunto”. La produzione del De Mura degli anni Quaranta del secolo XVIII rivela infatti la piena maturità dell’artista, alimentata da una vena di sottile intellettualismo e garbata emotività e, non a caso, si colloca nello stesso contesto da cui muove e in cui si sviluppa il teatro di Pietro Metastasio, nato anch’esso in una sorta di «felice incontro tra aulico e popolare, tra discorsivo e musicale». Tale complesso processo di acquisizioni linguistiche mira, come afferma Nicola Spinosa, alla definizione di una nuova “formula stilistica”, la quale sull’eredità di Francesco Solimena e con la stessa sapienza di quest’ultimo sa trasferire e poi tradurre in immagini di rinnovata intensità visiva le voci mutate della sensibilità e della cultura contemporanee. Splendidi capolavori, dunque, che guardano altresì alla grazia miniaturistica e alla delicatezza delle figure in porcellana policroma che la Reale Fabbrica di Capodimonte produceva per tradurre in immagini una nuova concezione di ricercata eleganza intessuta di pensieri eterei e di idealità poetiche.
Prof. ssa Lina Massa