“Choosy, mammoni, bamboccioni”. Ogni classe dirigente che si è avvicendata negli ultimi trent’anni ha connotato con un epiteto, colorito quanto denigrante, la giovane generazione. Sempre in numero minore nella nostra Italia e con minori competenze da spendere, accartocciata su se stessa, con un numero crescente di NEET (non in istruzione, né impegnati in un’occupazione) la nostra giovane generazione paga pegno per un blocco sistemico di cui non è responsabile.
Questo è quanto emerge dal “Rapporto Giovani” (la cui nuova edizione verrà pubblicata ad aprile) presentato venerdì dal suo Coordinatore scientifico Alessandro Rosina, docente di Demografia presso l’Università Cattolica, al consueto appuntamento di Cives, organizzato dall’Ufficio per i problemi sociali e il lavoro della Diocesi di Benevento, in collaborazione con il Centro di Cultura “Raffaele Calabria” e l’Università Cattolica del S. Cuore di Milano. Dietro di noi solo la Grecia, per il numero di giovani che hanno rinunciato ad inseguire il sogno di un’occupazione.
“La questione giovanile – ha detto Ettore Rossi direttore dell’Ufficio diocesano per i problemi sociali e il lavoro nell’introdurre l’incontro – torna ciclicamente al centro dell’attenzione. In questo momento sul piano della consapevolezza sembra chiaro a tutti che per dare un futuro al nostro Paese, in particolare al Mezzogiorno, bisogna offrire delle speranze concrete ai giovani. Finora però abbiamo solo sciupato i talenti e le potenzialità dei nostri ragazzi e ragazze. La prima scelta che come adulti dobbiamo fare, a partire dalle decisioni da prendere all’interno delle nostre famiglie, è di mettere a loro disposizione nei tempi opportuni le risorse che abbiamo per permettere loro di realizzare i progetti di vita e di lavoro”.
Ma qual è il futuro dei nostri giovani e come lo si può ben abitare? E’ la domanda cui il demografo Rosina ha cercato di dare risposte, con l’ausilio dei dati emersi dall’annuale indagine. “Il problema nasce dall’erosione del materiale umano con cui dovremmo costruire il futuro. Sempre meno giovani per il calo demografico (siamo il Paese europeo con il minor numero di ragazzi sotto alla soglia dei trent’anni), sempre di più i NEET e sempre più gli EXPAT, i ragazzi che hanno scelto, si fa per dire, di emigrare all’estero in cerca di lavoro. “Ma la maggior parte di essi rientrerebbe, se ne avesse facoltà”, sottolinea Rosina. Tornerebbe non per ripartire da zero, ma per ricominciare da tre, diremmo, parafrasando il grande Troisi che, come tutti i grandi, ha anticipato tempi e lettura dei tempi. Adotta una metafora calcistica Rosina e sottolinea: “E’ come se in Italia non ci fosse la serie A. Non si può pensare di allevare campioni lasciando le promesse perennemente in panchina o assegnando loro un ruolo non appropriato”. Questo è quello che l’Italia sta facendo ai propri giovani e non è vero che sono senza valori, svogliati o incapaci”. Rimangono in difesa, piuttosto, quando sentono di non avere alternative”.
Alternative che tocca agli adulti e alle istituzioni procacciare. Sono ragazzi che hanno fiducia nella ricerca scientifica (75% al Nord, 74% al Centro, 76% al Sud); nutrono relativa fiducia nei giornali e nella carta stampata, che non comprano, non perché legati ai social media, ma per mancanza di fondi; hanno fiducia nelle istituzioni, più alta verso lo Stato centrale al sud e meglio riposta verso Comuni e Regioni al nord. “I nostri giovani sono grandi ricercatori di senso. Non sono disposti ad accettare passivamente a scatola chiusa proposte di valori, anche legati alla religione, che non possano rivalutare o riscoprire insieme”. Emerge una generazione non contraria alla religione cattolica anche se la pratica religiosa è in diminuzione, ma che sente la necessità di legarsi a percorsi ed esperienze positive da condividere e di cui percepire la mission. Nel nostro Sud il 56% si dichiara cattolico credente, rispetto al 48% al Nord e al 46% al Centro.
I giovani sono disposti a decifrare il mondo che cambia e agli adulti resta l’arduo compito di costruire alternative, di ripensare in modo sistemico le realtà territoriali in cui agire il cambiamento, in cui assecondare le specificità caratteriali del capitale umano e territoriale. Come fare? Inutile rincorrere la tecnologia, avverte Rosina: per quanto veloci non potremmo stare al passo e prevedere come sarà il mondo tra quindici anni. Meglio puntare sulle soft skills; meglio rafforzare le competenze trasversali che sottendono al cambiamento: saper interpretare la realtà che cambia, saper essere resilienti e curare le capacità interpersonali, saper comprendere le emozioni e gli stati d’animo degli altri, saper condurre dialetticamente un confronto. Questo occorre fare. Instillare fiducia perché i giovani abbiano ancora e sempre “un sogno da inseguire e il desiderio di imparare”.
Il problema insomma, non è essere tra i NEET, ma acquisire fiducia e competenze per poterne uscire. Anche la Germania si è trovata ad affrontare le stesse dinamiche, ma alla scarsità numerica dei propri giovani ha saputo rispondere con una qualificazione professionale elevatissima e attingendo materiale umano di eccellenza, anche tra il nostro. Attivare circuiti virtuosi e spezzare i circoli viziosi è la sfida attuale delle nostre istituzioni. Prima che sia troppo tardi per il futuro della nostra penisola occorre ribaltare una certa ottica: non sono i giovani che hanno bisogno dell’Italia ma l’Italia che ha bisogno dei giovani. Non lasciamoceli scappare.